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Leopardi rifiuta presto le idee innate di Platone, dissolvendo con queste ogni fede nell'assoluto. E tuttavia, di questo stesso principio continua a sentire la seduzione - tentando di sfiorarlo - pur nell'impossibilità di attingerlo. Dentro la riflessione e la scrittura leopardiana permane forte e ineliminabile il fascino di alcune favole platoniche: il mito dell'anima alata del Fedro, quello di Prometeo nel Protagora, e soprattutto il racconto sull'amore che occupa l'intero Simposio. Questo libro cerca le tracce di un Platone accolto e insieme - anche dolorosamente - negato, nello "Zibaldone", nelle "Operette morali" e - soprattutto - nella poesia dei "Canti". Platone, definito da Leopardi "il più profondo, più vasto, più sublime filosofo di tutti essi antichi che ardi concepire un sistema il quale abbracciasse tutta l'esistenza", resta così per lui un punto fermo con cui misurarsi, intrecciandosi con altri temi e autori - fra antichi e moderni - quali Chateaubriand, Montesquieu, il sublime dello Pseudo-Longino e della Bibbia, Epitteto: nella scia di una persistenza e necessità dell'illusione che è figura stessa della persistenza dell'eros, del desiderio. (Presentazione di Alberto Folin; nota di Gilberto Lonardi)