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Quando diciamo "Ulisse" il pensiero va naturalmente a Omero. Ma in realtà è all'Ulisse dantesco che inconsciamente ci riferiamo, all'uomo-simbolo che per «seguir virtute e canoscenza» osò sfidare i limiti dell'umano sapere per andare oltre, dove nessuno mai aveva osato spingersi. Questa lettura di Maria Grazia Ciani vuole ricondurre Ulisse a Omero e al solo racconto omerico, a quell'Odissea dove, nonostante le divergenze e alcune incoerenze della narrazione, l'ossatura è forte, l'intenzione del poeta ferma: narrare la storia di un reduce della guerra di Troia e il lento riappropriarsi del suo mondo e della sua identità. Si dà credito soltanto alla profezia di Tiresia, a Ulisse, uomo legato alla terra, che volge le spalle al mare, che pianta il remo nel suolo e lo abbandona per sempre, a un Ulisse che muore a Itaca, in età avanzata, ricco e felice. Tutto ciò che è stato scritto dopo Omero fino a Nikos Kazantzakis in realtà non gli appartiene.