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Utopia e realismo sono categorie politiche che compaiono nel Cinquecento. Per Machiavelli compito della politica era riflettere sulla realtà effettuale, per Moro, invece, idearne una nuova. In modi opposti, entrambi reagirono all'esperienza di Savonarola: il suo rogo (1498) aveva segnato la fine del mito della profezia. Da quella triangolazione nacque il pensiero politico moderno, del quale l'utopia rappresentò un elemento fondamentale. La storia che qui si traccia non è perciò quella del genere letterario fantastico, ma segue l'intreccio tra progetti ideali e volontà politica di trasformare la realtà. Nel Cinquecento l'utopia fu collocata nello spazio immaginario; nel Seicento toccò terra nel tempo storico, sotto la forma di teocrazia; nel Settecento l'Illuminismo la secolarizzò e proiettò nel futuro. A farne la teoria fu Montesquieu, e dopo di lui i philosophes si chiesero se l'utopia avesse la forza di cambiare la realtà. La risposta venne dalla rivoluzione: dalla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 alla Congiura degli Eguali, per costruire la società ideale i rivoluzionari ripresero tutte le tradizioni utopistiche della storia moderna. La condanna a morte di Babeuf (1797) chiuse in maniera drammatica la parabola dell'utopia politica moderna.