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Manca una riflessione profonda sul lavoro. Lo si nota sia in campo economico sia in quello antropologico. L'aver messo al centro della nostra civiltà il consumo e la finanza, da una parte, e persino l'enfasi posta sul valore della lavoro e della tecnica concorrono insieme di fatto a vivere il lavoro come una necessità subita e accessoria rispetto all'identità di sé. Il lavoratore diventa «risorsa o capitale umano» (valutabile per qualità e quantità) con cui ci si relazione a suon di incentivi e/o sanzioni (il denaro è l'unico perché del lavoratore). È una rivoluzione silenziosa che si gioca sulla frattura tra lavoro e progetto di vita del lavoratore: chi dà lavoro compra con la prestazione del lavoratore anche la sua ragione, il movente, la motivazione. Il lavoro non è più un valore, non qualifica più la vita, ma serve per altro di buono e valido. E la teologia? «CredereOggi» si interroga sulla pesante carenza di contributi «teologici» sul tema a fronte di un'attenzione, dove c'è, «etica» più confacente (comoda?). Dopo la riflessione (ancora acerba e «moderna») di M.D. Chenu (1955) non c'è nulla. Incominciamo.