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Questo saggio si interessa dello spazio residuo, ovvero degli scarti: il risultato di un affastellarsi di più disegni o di un'assenza di significato e di conseguenza del ruolo del progetto. Sotto questa prospettiva diviene allora concreta la possibilità che il progetto possa assorbire le dinamiche del tempo, elaborando strategie in grado di annettere, selezionare o abbandonare, e in ultima analisi di dialogare con lo scarto piuttosto che escluderlo a priori. Ecco che allora si aprono nuovi scenari operativi, nuove terre che in realtà esistevano già: «Non si vogliono scoprire o scrivere nuove parole ma trovare nuove terre in quelle che ci sono già, leggendole come enunciati di costruzioni e processi». Il futuro di queste zone bianche, palinsesti sempre in attesa di un ruolo preciso, può dunque essere quello di formare aree di cambiamento: pronte a rientrare in gioco in caso di necessarie revisioni della struttura esistente, assecondando così quella che l'autore definisce «identità mutevole dei luoghi». Esperienze dell'arte concettuale, progetti di architettura e alcuni frammenti letterari e filosofici vengono dunque scelti e montati allo scopo di fornire modalità interpretative e trasformative che pongano lo scarto come materiale del progetto. In tal modo Paul Auster, Ed Ruscha, Gordon Matta-Clark, Konstantin Melnikov, Kevin Lynch, Jean Baudrillard, fra gli altri, vengono riletti secondo una visione comune che in ultima analisi cerca di rispondere alla questione sollevata da Gilles Clément: «Le aree lasciate incolte, sono sempre esistite. La storia le denuncia come una perdita di potere dell'uomo sulla natura. E se si posasse su di loro uno sguardo diverso? Non sono forse le pagine nuove di cui abbiamo bisogno?».