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Il "De ira" è una profonda riflessione sull'uomo e le sue passioni affrontata da Seneca con particolare attenzione al legame fra le forme dell'ira e lo strapotere politico e affidata alla forte condanna di tale impulso anche nelle relazioni interpersonali. Legata tanto a un sentimento di vendetta sia per un'ingiuria reale o presunta di cui ci si sente vittima sia per l'indignazione dinanzi alla malvagità altrui quanto a forme dirompenti del potere politico, il furor di tale passione si traduce nell'assoluta mancanza di autocontrollo, nella tensione irrazionale verso uno scopo autodistruttivo e fortemente destabilizzante per l'equilibrio sociale. Quale esperienza politica e morale sia sottesa all'appassionata analisi senecana dell'ira, condannata come fattore di turbamento e di perdita temporanea della ragione che rende incapaci di distinguere il giusto e il vero, traspare da numerosi passi del trattato. Definita come (affectus) maxime ex omnibus taetrus ac rabidus può essere vanificata soltanto dall'orgogliosa vittoria della sapientia nella consapevolezza che tale male non dà all'uomo alcun diritto, neppure quello della memoria poiché ne affiderà il ricordo all'odio. E Seneca in quella sapientia che non dimentica mai sé nell'altro invita a colere humanitatem affinché nulli cadaver nostrum iaceat invisum (ira 3,43,2).