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Secondo Voltaire, il mito di Amore e Psiche è la favola più bella che gli Antichi ci abbiano lasciato. Se il Medio Evo e l'Umanesimo hanno visto nel conturbante racconto di Apuleio l'emblema di una verità cristiana (la colpa e la redenzione), o di un miraggio neoplatonico (l'ascesa verso il divino) o di un insegnamento stoico (l'invito ad affrontare con forza d'animo il male di vivere), tra Rinascimento e età dei Lumi è prevalsa una lettura edonistica (la favola esalterebbe la pura carnalità) o spettacolare e teatrale. Già allora si è fatta strada l'idea del valore ingannevole ma consolante delle illusioni (Psiche è felice finché non esce dal mondo dei sensi e non vede il volto di Eros: finché, con la sua lampada, non scopre la verità). Con l'Ottocento le sventure di Psiche sono il prezzo con cui gli uomini pagano il progresso. In età decadente queste idee ambiziose vengono accantonate: nel mito grandeggia ormai la figura di Psiche come immagine di pura interiorità, come simbolo dell'io più profondo. Nel Novecento, secolo propenso alla dissacrazione e al disincanto, la favola è ripresa in una chiave sarcastica e cinica che forse tradisce un'inconfessata nostalgia. Queste pagine ci introducono alle metamorfosi del mito, così come si è insediato nell'immaginario occidentale, non solo nella letteratura, ma anche nelle raffigurazioni pittoriche, nei marmi degli scultori o negli spartiti musicali di celebri compositori.