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Nella incompiuta raccolta di petits poèmes en prose che compongono Lo spleen di Parigi(1869) Baudelaire insegue l'ideale di una prosa musicale ma senza rima, dotata dello stesso potere evocativo del verso e capace di adattarsi «ai movimenti lirici dell'anima, alle oscillazioni del fantasticare, ai soprassalti della coscienza». Forse ancor più dei Fiori del male, di cui pure sono debitori, questi poemetti costituiscono un inesauribile repertorio tematico sospeso tra diario intimo e allegoria, in cui divagazioni autobiografiche si affiancano a malinconiche suggestioni di flâneur, scene di vita quotidiana si mescolano a magiche rievocazioni di sogni, bagatelle bizzarre convivono con sofferte riflessioni sulla condizione dell'artista, sempre in bilico tra gusto del peccato e aspirazione alla purezza, assetato di bellezza ma costretto a cantare gli orrori della metropoli moderna. Testo capitale che inaugura un nuovo genere destinato a grande fortuna nella letteratura europea, con il loro realismo visionario i poemetti in prosa di Baudelaire rappresentano anche il più incisivo e memorabile affresco di Parigi capitale del XIX secolo.