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«Sto per terminare i Karamazov», scrive Dostoevskij il 16 agosto del 1880. «Quest'ultima parte, lo vedo e lo sento da me, è così originale e diversa da come scrivono gli altri, che non mi aspetto alcuna approvazione dalla critica. Il pubblico, i lettori sono un'altra storia: mi hanno sempre sostenuto». A un secolo e mezzo dalla sua comparsa, dapprima sulla rivista «Russkij vestnik» (Il messaggero russo) e poi in un'edizione in due volumi che andò esaurita nel giro di qualche settimana, questa scrittura diversa e originale, «madre della prosa moderna e che ha portato alla sua intensità attuale » (James Joyce), questi «vortici in ebollizione, turbinose tempeste di sabbia, getti d'acqua che sibilano e ribollono e ci risucchiano » dentro pagine composte «essenzialmente e completamente della materia di cui è fatta l'anima» (Virginia Woolf), questa «vetta della letteratura di ogni tempo » (Albert Einstein), questo «libro che può insegnarti tutto quello che serve sapere sulla vita» (Kurt Vonnegut), questo autore «che sovrasta con la sua statura le nostre letterature e la nostra storia» e che «oggi ancora ci aiuta a vivere e sperare» (Albert Camus), questa lettura «nevrotica » (Vladimir Nabokov) ma umanissima del cristianesimo, non ha perso nulla della sua potenza letteraria. E ancora oggi, mentre assistiamo al parricidio più famoso delle lettere moderne e ne seguiamo l'esaltante iter giudiziario, siamo costretti a scendere con Ivan, Dmitrij e Alësa Karamazov nelle profondità più scomode dell'animo umano, a interrogarci sugli istinti peggiori dell'individuo e della società, a incidere come un patologo le cancrene della nostra coscienza, in un percorso in cui realtà e incubo non sempre hanno contorni netti, in cui la tragedia si accompagna alla farsa, e la disperazione si danna per alimentare una pur esile fiammella di speranza. "I fratelli Karamazov" è il testamento letterario, e non solo, di Dostoevskij, il romanzo di chi guarda al sublime da una pozza di fango, delle idee che prendono fuoco, di coloro che «non respirano mai tranquillamente né mai si riposano (...), di chi vive nella febbre, nella convulsione, nello spasimo» (Stefan Zweig).