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La vita può lasciare senza fiato. Anche la vita piccola e ordinaria della provincia americana, brulicante di emozioni impetuose sotto la cappa dell'immobilità. La vita di Pete Barton, ad esempio, un bambino di mezza età, eterno custode e prigioniero della casa di famiglia. O le vite deragliate delle «Principessine Nicely», nomignolo ormai grottesco per promesse giovanili non mantenute. Ritrovare queste vite, incrociate in "Mi chiamo Lucy Barton", riconoscerle, avvicinarsi per capirle meglio, dà la stessa lancinante felicità di ogni ritorno a casa. E se ci si può rinnamorare a settant'anni su un lungomare italiano, se si può trovare un attimo di sollievo dal dolore persino nella stanza anonima di un bed and breakfast, se si può scovare un amico vero nel retro di un teatrino amatoriale, allora tutto, ma proprio tutto, è possibile.