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In una serie di folgoranti "piani sequenza" su altrettanti punti topici di New York (da Times Square al ponte di Brooklyn, dalla metropolitana all'aeroporto JFK), caustici ed eloquenti, Colson Whitehead ci offre una visione nel profondo della Grande Mela, ne ricrea l'esuberanza, il caos, la promessa e il dolore. Un panorama interiore costruito su un alternarsi jazzistico di voci, che è il modo in cui tutti, residenti e ultimi arrivati, sperimentano questa città. E così "Il colosso di New York" si trasforma sotto i nostri occhi in un canto d'amore, una vivace, intelligente, intensa "ballata" dedicata alla città più "disponibile" che si conosca, un poema in prosa dal ritmo spezzato e accattivante. Perché c'è un poeta dentro queste pagine, capace di posare sulle cose uno sguardo profondo, di penetrare nelle fessure di una realtà sfaccettata e di tradurre il tutto in parole. Alla fine, è il nostro occhio, il nostro modo di guardare a uscirne trasformato.