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La storia narrata da Jannis Jerakis è, prima di ogni altra valutazione, la storia di chi combatte giornalmente per una vita dignitosa. È poi la storia di una sperduta isola, allora parte dell'Impero Ottomano, le cui risorse erano stentate sia sulla terra che sul mare. E ancora è la storia di una comunità che spesso - e nel migliore dei casi - riusciva a far emigrare i propri figli nel tentativo di offrir loro un futuro diverso ma anche nell'intento di ottenere qualche piccolo beneficio economico che permettesse di alleviare la difficile quotidianità. Jerakis non offre appigli letterari che possano diluire la realtà aspra, inequivocabile, che accompagnava lo scorrere delle stagioni sull'isola e lontano da essa. La vicenda, che si sviluppa nel breve arco di tempo che va dal 1900 al 1904, con rapide incursioni in anni precedenti o successivi che alcune citazioni ci fanno intravedere, affronta molteplici temi, tutti proposti senza alcuno scopo didascalico se non quello di rispondere all'intima necessità di raccontare ad altri gli avvenimenti, di metterli a conoscenza di fatti che, per il profondo rispetto dovuto ai morti e all'amicizia, non avevano il diritto di essere dimenticati. Appare tra le pagine la condizione della vita umile di Kàlymnos che si interseca con la dura esperienza dell'emigrazione forzata, per sciogliersi nostalgicamente nella nuda quotidianità divisa tra i campi, gli oliveti, il mare e la pesca delle spugne. Vanto ed orrore di chi la praticava - privilegiato nella catena degli umili di quella isolata parte di Egeo - con le sue leggi implacabili e severe, metteva a dura prova il legame altamente solidale fra gli uomini, unico argine alle avversità ed al pericolo, grande, per la vita.