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Scrivere una poesia oggi - tranne che per i fortunati abitanti di mitologiche biblioteche e torri d'avorio - è impresa sovrumana e, probabilmente, inutile. Già definire l'atto dello "scrivere" implicherebbe lunghe e tediose disquisizioni estetiche: l'etimologia del verbo stesso ricorda l'utilizzo di strumenti che incidono una superficie. Nella nostra veloce epoca multimediale, ciò non è solo antiquato, ma pateticamente nostalgico. Similmente, definire una "poesia", a più di un secolo dalle ambiziose avanguardie, settanta anni dopo l'olocausto, e dopo la sperimentazione di tutti i metri, le forme e le poetiche possibili, è esercizio a dir poco ambizioso. Tutte le parole contenute in questo breve volume sono già state utilizzate milioni, o miliardi, di volte, in tutti i possibili contesti, o trovate sui giornali, ascoltate in vani talk show, o abusate da vili profittatori. Eppure, le parole, questi modesti strumenti, possono ancora schiudere - se ci si ferma ad ascoltarle - brevi istanti di pura felicità, o indicare strade per la comprensione della nostra faticosa realtà. Questa, in breve, è la magia della poesia.