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Il codice di procedura civile contempla due modelli di arbitrato per la risoluzione delle controversie che non vertono su diritti indisponibili: l'arbitrato rituale, attratto nell'orbita della giurisdizione concludendosi con un atto al quale l'ordinamento riconosce efficacia equiparabile a quella della sentenza, e l'arbitrato irrituale, radicato nel campo dell'autonomia privata definendosi con una determinazione contrattuale, pur se caratterizzato da una sequenza spiccatamente procedimentale e da un regime impugnatorio. La tipizzazione dell'arbitrato irrituale nel Titolo VIII del Libro IV del codice di rito, voluta dal legislatore del 2006 (d.lgs. n. 40), risponde a due fondamentali ragioni: la prima riguarda il riconoscimento dell'autonomia privata, sia pure entro i precisi limiti delle garanzie del giusto processo, segno della necessità dello Stato di "appropriarsi" anche dell'arbitrato irrituale, fenomeno inventato dalla giurisprudenza nel 1904 e mai abbandonato nella realtà applicativa; la seconda ragione sta nel tentativo di allineare l'arbitrato irrituale di diritto comune a quello di diritto speciale per le controversie di lavoro, disciplinato sin dal secolo scorso.