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"Procida" è il romanzo col quale Franco Cordelli esordì a trent'anni nel 1973. Fu subito chiaro che l'autore possedeva già uno stile maturo, con una conoscenza profonda del romanzo moderno. Il personaggio che dice «io» è un intellettuale che lascia Roma per rifugiarsi nella sua casa (dove topi e formiche girano liberamente) nell'isola di Procida. Lì prende degli appunti su un diario in cui scrive il resoconto della giornata; anzi, il resoconto dei suoi stati mentali. Nulla di straordinario da raccontare. Ma è proprio questa la scommessa di Cordelli, che cerca di ribaltare ogni luogo comune della letteratura (di cui il titolo è un chiaro riferimento, quello che rimanda a "L'isola di Arturo" di Elsa Morante e a "L'isola del tesoro" di Stevenson): come raccontare nulla? Quando lo raggiungeranno anche la figlia del narratore e tre suoi amici, e nell'isola viene rinvenuto il cadavere di una donna, qualcosa nella mente del narratore cambia, assume una diversa prospettiva. Desiderio e morte, fato e necessità si intrecciano inesorabilmente, come in un giallo in cui non ci sono casi da risolvere ma solo stati mentali da decifrare.