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Sono pochi i racconti che hanno saputo inabissarsi nelle possibilità narrative scandagliate dalla Parabola dei ciechi. A metà degli anni '80, a circa quattrocento anni di distanza dall'omonimo dipinto di Bruegel, Gert Hofmann si propose di scrivere una genealogia teatrale del quadro, una sua messa in scena che raccontasse il diventare arte dei personaggi, seguendo l'assurda idea che si potesse spiegare un'immagine a partire dall'incespicante prospettiva di un gruppo di ciechi. Così, ascoltando l'eco di un'Europa dilaniata dalle guerre di religione, brancolando senza guida nelle Fiandre di Pede-Sainte-Anne, assistiamo alla continua interrogazione e sofferenza di questo «noi» impacciato che, ignaro del perché, si dirige dal «pittore» per farsi ritrarre nella posa che la parabola biblica e il proverbio fiammingo imporrebbero: "Quando un uomo cieco ne guida un altro, ambedue cadranno nella fossa". Bruegel e Hofmann ne immaginano sei, aggiungendo anelli a una catena di capitomboli che quella prima persona plurale sembrerebbe moltiplicare all'infinito, fino ad abbracciare l'intera umanità. Noi, i ciechi, ascoltiamo i lamenti di un mondo straziato, gattoniamo per uscire dai fossi, siamo inseguiti dai corvi, ci fidiamo e veniamo traditi dai consigli di chi ci accompagna, spesso li travisiamo, siamo costretti a "cacare" in pubblico, ci rendiamo ridicoli, siamo attori di un grande equivoco, l'esistenza. E per far sì che questa caduta pieghi di un poco la sua traiettoria - e si faccia parabola - non ci rimane che vederci per quello che siamo e farci immortalare nell'opera d'arte. Correndo il rischio di trasformare la verticale in cerchio, di girare in tondo alla cieca, di cadere per l'eternità, in attesa della fine, scambiando un equivoco per un altro.