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Come può la parola Dio vacillare e cadere al di là dei limiti del senso e del non senso, restando comunque pietra di inciampo e invocazione anche per chi si fa contro l'altro uomo? La morte di Dio come cifra dell'età secolare è davvero anche la morte dell'uomo, e di quale uomo? L'analisi degli enunciati religiosi a quali giochi linguistici ci invita partecipare? Su quali forme di vita, e su quali possibilità di comunicazione o di inattingibilità del pensiero ci porta a riflettere? Interrogativi centrali nelle opere del teologo americano Paul van Buren, una delle più emblematiche espressioni teologiche del XX secolo, tesa ad applicare la filosofia del secondo Wittgenstein e tutta la filosofia analitica anglosassone all'idea di un nuovo approccio ermeneutico al linguaggio religioso, fino a trovare, oltre le frontiere del linguaggio, l'apofantica dell'invocazione, che ci ricorda che ogni parola custodisce ed alimenta una poetica mediatrice tra la luce e l'oscurità, tra il rumore e il silenzio, che tenta di insinuarsi nelle più profonde caverne delle viscere umane, laddove è rinchiuso e risuona il mistero dell'origine.