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Il sangue e la violenza hanno costituito, per molti, un naturale paradigma della grande rivoluzione, l'orizzonte di significato entro cui collocare le traiettorie giacobine e sanculotte dei suoi uomini più noti. In questa prospettiva Marat assurge ad archetipo e modello del rivoluzionario dall'animo feroce e spietato, quasi irrazionale, vendicativo. La riedizione degli scritti, tuttavia, pone un quesito sostanziale: Marat è, in fondo, esclusivamente l'uomo della dittatura, colui che invoca la necessità del triumvirato romano, che stringe sino a soffocare le libertà degli avversari, che si arrovella e sbraita, sguazzante tra i fumi e il cruor delle devastazioni rivoluzionarie? Di certo, il montagnardo lavora per la formazione di una solida opinione pubblica attraverso una stampa e una pubblicistica passionalmente a contatto con la più varia fiumana popolare. La severità delle espressioni impiegate deriva dal timore della prossima illusione, da un pensiero che alla rivoluzione nulla chiede se non il riconoscimento degli ideali sociali e dei diritti sanciti dalla déclaration. È la motivazione esistenziale che lo muove a presentarsi quale intransigente coscienza del popolo francese.