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Giacomo Rizzo diparte dalla res terrena per sublimare quest'ultima in imago anima e attraverso lo strappo, risalendo dal contingente-terra all'idea pura-anima. La realtà sensibile si epura dalla propria accidentalità, trasmuta fino a divenire idea universale plasticamente inverata. Rizzo ha dedicato gli ultimi anni della sua ricerca, con vocazione d'anacoreta e con religioso rigore d'analisi e d'esplorazione, all'operazione artistica dello strappo di brani di natura: tronchi, campi arati, greti di un fiume, scogliere e in special modo monti "sacri". Monti come padri dell'umanità, monti come padri di una spiritualità sepolta ma non dimenticata, perduta ma tenacemente cercata dall'artista, monti che con una dilatazione di pensiero e d'azione vengono ridestati a seconda vita per il loro senso storico, religioso, antropologico, culturale, apotropaico. La "petra alpestra e dura" di cui scrive Michelangelo e che nel processo di creazione scultorea viene assalita a colpi di scalpello diviene qui invece principio informatore (e spirituale) dal valore intrinseco già compiutissimo.