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Un uomo, di professione traduttore, ha lasciato la sua terra d'origine, è andato lontano (in diversi lontani) e non è più tornato. Un esilio volontario, forse da sé stesso. Ritorni e ripartenze, dalle rive del mare di casa alle dune del Mare del Nord, nei luoghi anfibi dove la sera si radunano i gabbiani e i moscerini danzanti giapponesi. I luoghi e le circostanze del passato e del presente si allacciano come in una treccia: i collegi, la valle ulivata dell'infanzia, le caserme e i reparti neuro dove colui che racconta ha vissuto «nei dieci anni di residenza nella notte»... Un'autobiografia, per frammenti e senza soggetto, che si presuppone vera proprio perché non c'è nessuna prova che lo sia. Il mare, le spiagge, l'orizzonte di sabbia, le acque ricorrono nel libro come un connettivo della nostalgia. Da un esilio all'altro, il luogo della presenza: «Dicono che gli esuli fanno bene due cose, una è camminare lungo le rive di un fiume, o di un mare, di un lago, di un canale. L'altra è non dormire la notte». Vero protagonista del libro è la sua "voce", che fa risuonare le parole nell'orecchio, ci trascina oltre l'affastellamento degli eventi di una vita.