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In una società in cui siamo sempre esposti, in cui mettiamo in vetrina la superficie, in cui vogliamo essere visibili e "visualizzati" a tutti i costi, Ivana Dobrakovová, una delle voci più originali e interessanti nel panorama della letteratura slovacca contemporanea, sceglie come protagonista delle sue storie «l'invisibile agli occhi». "Madri e camionisti", cinque racconti, cinque donne, cinque voci soliste che formano un coro di solitudini, di sofferenze inconfessabili, di segreti, frustrazioni, paure. Tre di loro sono slovacche e vivono a Bratislava, due sono italiane e vivono a Torino, ma quello in cui si muovono è un territorio comune, un universale che le lega e in cui sembrano a volte incrociarsi senza entrare in contatto. Nessuno vede la loro anima logorata, sono avvolte da una parvenza di normalità e di grigiore quotidiano, tra famiglia, rapporto con la madre, lavoro, disturbi mentali e un mondo maschile anonimo, spesso inerte ma a volte anche pericoloso. Dentro di loro tuttavia il monologo è febbrile, concitato, in cerca di un filo conduttore, di una risoluzione alle loro sofferenze esistenziali che quasi sempre le portano a ritrovarsi su un precipizio o a un confine oltre il quale non c'è ritorno. Cinque io possibili in cui molte donne troveranno con sorpresa frammenti di se stesse. Nell'atlante creato dalle donne invisibili della Dobrakovová, un atlante tattile e visivo che mappa le rappresentazioni che ognuna possiede del proprio corpo, un corpo sofferente perché lo è la mente, scopriamo che le linee di confine si assottigliano, che i contesti politici e culturali in cui queste donne vivono ormai si assomigliano, così come è simile il loro malessere esistenziale. Un malessere, un sentire, che diventa transnazionale e transculturale, che ci ricorda che proprio nell'universalità di ciò che proviamo ci possiamo scoprire vicini.