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Il mito romantico del popolo autore, il mito dell'opera d'arte corale "che si fa da sé" non poteva trovare compiuta realizzazione se non sulla scena. La "Figlia di Iorio" (1903), capolavoro del d'Annunzio drammaturgo, ripropone un'antica leggenda dell'Abruzzo celtico e la vicenda, collocata in un tempo immemorabile, risolve vittoriosamente lo spinoso problema, tutto italiano, della lingua recitata. I personaggi della leggenda dannunziana riproducono gli accenti remoti delle nostre grandi Origini con tale perizia che il pubblico viene immerso nella temperie linguistica da cui sono nati la Divina Commedia o il Decameron. Non si tratta tuttavia di una tragedia antiquaria ma di una tragedia modernissima, in quanto punta su di una popolarità complessa, attiva e passiva: la prostituta redenta dall'amore è un'"invariante" della "Signora delle camelie" come della "Traviata". L'omaggio per la Duse appare evidente da parte di chi le offre, ai vertici della poesia, l'opportunità di non discostarsi dal suo repertorio più applaudito. La trafila compositiva della Figlia di Iorio mette oltretutto in luce le divergenze artistiche che determinano l'alleanza mancata fra i due "divi".