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Con cinquanta chili di frumento del minûn in spalla, i portatori salivano nel granaio, spesso affrontando le scale fino al solaio, oppure vuotavano i sacchi nello scrigno, una sorta di cassone di legno (e anche lì, poiché era alto, c'erano tre gradini da salire e scendere per buttarci dentro il grano). Noi bambini dietro, che era proprio un bel gioco, soprattutto quando, ubriachi più di fatica che di vino, i portatori cominciavano a vacillare. Noi bambini dietro, e poi via a camminare a piedi scalzi sul grano buttato a formare dune sul pavimento; una sensazione molto gradevole: di solletico, di carezze sulla pelle, e ti veniva voglia di tuffartici come fosse acqua e ti scappava sempre di rosicchiarne qualche manciata perché c'era pure, ad avvolgerti, quell'inconfondibile fragranza che richiamava il pane. Continuano i racconti di Normanna Albertini sulla vita in Appennino dagli anni Cinquanta agli anni Settanta. Di quella società abituata al senza e al poco. Si faceva senza di tanto. E quello che c'era ognuno se lo costruiva. Con le mani. E con l'ingegno semplice.