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Secondo la celebre intuizione freudiana, per diventare adulti è indispensabile "uccidere il proprio padre", metabolizzarne la sua influenza, ribellarci al flusso che ci spinge a replicare la sua vita; un percorso fondamentale per l'affermazione del proprio sé, per costruire una morale autonoma e personale. È la ricerca che Marco Roth intraprende in questo appassionato e sofferto memoir. Suo padre, introverso e severo, è un medico e un ricercatore affermato, e ha educato Marco con il frutto migliore della cultura borghese europea: musica classica, salotti internazionali, le favole di La Fontaine da bambino e i classici romanzi di formazione di fine Ottocento. Anaffettivo e scontroso, carica di aspettative il giovane Marco che si sente sempre sotto giudizio e inadeguato. Ma prima che il ragazzo riesca a emanciparsi da questo sistema di valori, il padre muore di AIDS. Marco ha solo 19 anni, e si trascina ancora dietro un'eredità di cose non dette, segreti, dubbi e sentimenti inespressi, in una New York dove, alla fine degli anni Ottanta, la malattia è ancora uno spettro sconosciuto che spaventa, quasi un tabù, un marchio. Quando, anni dopo, sua zia pubblica una biografia sul padre di Marco, insinuandone l'omosessualità, il ragazzo decide di andare a caccia del suo fantasma cercandone il riflesso nei romanzi con cui è stato cresciuto. Tra le pagine di "Oblomov", in "Padri e figli" di Turgenev, in "Tonio Kröger si cela" la drammatica richiesta di comprensione di un padre a suo figlio.