Tab Article
Nel novembre 1971, in una galleria d'arte californiana, un collaboratore imbraccia un fucile e spara sul braccio di Chris Burden durante un'azione che dura pochi secondi. Quell'opera sembra annunciare il ritorno della ferita nell'arte della modernità avanzata come mera figura somatica, ormai svincolata dalla solida economia narrativa che l'ha accompagnata lungo la storia dell'immagine cristiana e persino dalle proiezioni simboliche tipiche della body art o dell'azionismo. Come in quel colpo di fucile, così in una parte delle arti visive dagli anni Novanta e oltre, una ferita sempre più isolata, ostentata ed autonoma delinea un cortocircuito tra corpo-involucro - luogo di intellegibilità collettiva e di possibile messa in comune, sul cui volto e nei cui gesti si articolano forme passionali offerte alla condivisione - e quel sostrato biologico che chiamiamo carne, fondo in cui si dispiegano le dinamiche opache del vivente, i ritmi e le scansioni della vita nella sua mera tenuta biologica. Mentre una crisi profonda sembra investire le potenzialità espressive di un volto e di un corpo sempre più apatici, gli accidenti della carne accedono via via all'orizzonte del visibile. Si affermano così, in una regione dell'arte, figure di un corpo ancora capace di sperimentare la non-coincidenza che lo attraversa, dichiarando la disgiunzione tra il corpo come deposito identitario e luogo di intellegibilità collettiva ed il suo sostrato biologico.