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Quando s'incontra la grande poesia del passato, l'attrazione gravitazionale del contenuto - il fascino di immagini, similitudini, massime senza tempo; la loro capacità di parlarci, forza motrice che ancora Proust ha saputo così bene eternare in un passo de "Il tempo ritrovato" - ha portato e porta assai spesso a tirare la coperta della traduzione per il lembo della massima rispondenza letterale, a scapito del metro e, più ancora, della rima o dell'assonanza. Il caso paradigmatico mi sembra quello di Emily Dickinson, le cui trasposizioni in Italiano, almeno nelle versioni cui da qui ho immediato accesso, appaiono quasi sempre sottopesare se non ignorare, in nome della fedeltà ai preziosi contenuti, la rima/assonanza sui versi pari; meno, ma non di rado, si prescinde persino dal restituire l'andamento giambico. In questo senso la traduzione della grande di Amherst è per me la sfida più affascinante che Sergio Pasquandrea intraprende, preoccupandosi di mantenere assonanza e ritmo saldamente accanto alla davvero miracolosa sostanza poetica.