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Eros e Medusa vanno a braccetto in questo libro. Non è precisamente la coppia cara al romanticismo di amore e morte: certo è però che qui di nuovo appare e passeggia, precipitata nel fragore contemporaneo di strade o stazioni ferroviarie, la belle dame sans merci, «l'amara furia della sua bellezza», e il mondo, seppure conserva ancora le sue forme seducenti - pietre, carte e carni -, è visto come da un non-luogo, con uno sguardo postumo. In verità le poesie di Cristiano Franceschi hanno la pallida refrattarietà dei marmi funerari, la stessa quieta energia, il medesimo movimento fermo: verso dopo verso Franceschi tira su mausolei e cenotafi: monumenti all'assenza; non però l'assenza dorata dell'elegismo novecentesco, bensì quella arida, pietrosa dei deserti dell'anima cresciuti sulle rovine dell'illusione modernista. D'altra parte l'amore meduseo celebrato in sonetti e madrigali ha un suo potere vivifico, offre fremiti e tremiti, prima di pietrificare. Fervori della carne e riposi sepolcrali sono petizioni che si specchiano: nella poesia di Franceschi, sempre più chiusa, sigillata, e che ha, mi pare, due grandi ombre tutelari, il Michelangelo delle rime amorose e mortali e il Nerval misterico delle Chimere, si traducono in quel suo inconfondibile raggelato ardore. (Gianfranco Palmery).