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Nel luglio del 1816 la fregata francese "Medusa" naufraga al largo delle coste del Senegal. Centoquarantasette disperati cercano la salvezza su una zattera che viene abbandonata in mare con pochissimi viveri. Per dodici giorni i superstiti si dilaniano, si uccidono, si cibano gli uni degli altri. All'alba del 17 luglio, ne vengono tratti in salvo appena quindici, sopravvissuti a quella terribile carneficina originata dalla disorganizzazione, dall'insipienza dei comandanti e alimentata dalla folle disperazione dei naufraghi. Théodore Géricault decide di usare quel crudo episodio di cronaca per un quadro che cambierà l'idea di pittura. Anch'egli naufrago dell'esistenza, con alle spalle una disperata e sfortunatissima storia d'amore, per nove mesi si chiude nel suo studio e lavora all'enorme tela di cinque metri per sette. Ma il dipinto, che descrive anche la tragedia della Restaurazione, la disillusione dell'età napoleonica, il mesto ripiegarsi degli entusiasmi rivoluzionari, si scontra con la banalità del pensare comune, con l'orrore per lo scandalo e porta il suo autore a una precoce fine. Storia emblematica di comandanti meschini, vittime sacrificali e artisti eroici, la vicenda della "Zattera della Medusa" sembra trovare negli anni che stiamo vivendo un parallelismo perfetto che la porta a esser letta non come il resoconto di una cronaca del diciannovesimo secolo ma come la feroce e visionaria anticipazione del nostro presente.