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Il vice-commissario Ottone Ingravoglia indaga in una città che ha vocazione teatrale e "impupazza": la Napoli del dopoguerra in cui scorre la boria dei marines di stanza al porto, "occhione largo dell'Alleanza Atlantica". Al ronzio d'api della Questura Ingravoglia preferisce i tagli di luce tra palazzi di tufo, la "pietra dolce che si sbriciola nell'ocra e nel nulla". Conosce l'alienazione di dover lavorare a "pezzi" d'indagine, fronteggia fatti crudi, gli scontri di camorra, il disonore della carica contro gli scioperanti dell'Italsider, una ragazza scomparsa che lo porta in una provincia dolciastra e antiquata, vicino al perturbante principe della risata, Tito de Cortis, "viso sghembo" di noia. Lì, al sensibile Ingravoglia giunge forse un lampo telepatico, una rivelazione silenziosa dal piccolo Nico, chiuso alla comunicazione verbale per una sua interna, bianca, interferenza. La lingua del romanzo dice ben più di sé stessa: densa e corposa, ha odori notturni, sensualità curvilinea, verde fondo di iridi. Una lingua amata e "sconcigliata", multiforme, plastica e seduttiva, da incantatoria sirena. Come la donna che ha "voce di melograno", e poco importa, qui, che i melograni non parlino.