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Palermo, luglio 1992. Sono i giorni della strage di via D'Amelio. "È finito tutto" dice uno scosso Antonino Caponnetto a un giornalista, uscendo dall'obitorio dopo l'ultimo saluto a Paolo Borsellino. Il giudice in pensione, padre del pool antimafia, è l'ambasciatore di un'Italia che non ha più uomini presentabili. "Chi ci difende ora? Dov'è lo Stato?", gli chiedono le persone. Le stesse domande sentite due mesi prima in occasione della morte di Giovanni Falcone. L'ex Capo Ufficio Istruzione è il simbolo di una città, di un Paese, che si rialza dall'ennesimo schiaffo. Il rammarico per quella frase detta in un momento di sconforto è un motivo in più per farsi coraggio, per riprendere le forze e la speranza, e lavorare sul cambiamento culturale e sulla lotta alla mafia. È l'inizio della primavera palermitana. Nella sua "preghiera laica", al funerale di Borsellino, c'è il progetto dei dieci anni seguenti: Caponnetto diventa il primo rappresentante della società civile, gira l'Italia per testimoniare nelle scuole la sua esperienza e portare avanti le idee dei magistrati uccisi dalla mafia.