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L'autore racconta - con velato pungente rimpianto di vita vissuta - la realtà del mondo contadino di un'ampia area geografica dell'Italia centrale nel secondo dopoguerra. Ne emerge una cultura autonoma, svincolata dalla "limitatezza della storia", caratterizzata da proprie tradizioni territoriali. Una cultura dettata da regole ataviche e da un linguaggio dialettale ricco di continui guizzi creativi propri di una autentica "lingua viva", a cui contribuivano tutti. Il libro si rivolge ai giovani "civilizzati", distanti anni luce da quel mondo, destinati a non trovarne più alcuna testimonianza diretta; e, soprattutto, il libro è dedicato ai moltissimi giovani contadini di oggi, che negli ultimi anni hanno scelto di tornare a coltivare la terra senza volerla sfruttare fino ad esaurimento, utilizzando il sapere millenario dei loro avi. Una odierna vera e propria tendenza ad un ritorno alla pasoliniana età del pane, a uno stile di vita "natural-umano" fondato sui beni necessari come presupposto parallelo e alternativo al dominante e devastante effetto "Re Mida" del pensiero unico dell'età dell'oro.