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Vivere, nutrire le viscere, torcerle e magari metterle in esposizione sul piatto della scrittura. Sì, molti sono concordi nell'affermare che Jack London dovesse vivere per poter scrivere e che scrivesse per poter vivere. Per quanto riguarda Il Messicano, storia di boxe e disperato riscatto, apparsa sul «Saturday Evening Post» nel 1911, è cosa buona ricordare che il pugile dilettante London galvanizzato da quello sport primordiale, a volte non disdegnasse di avere come sparring partner Charmian Kittredge, la sua seconda moglie, e che probabilmente fu incaricato di seguire la Rivoluzione messicana di Pancho Villa e di Emiliano Zapata, proprio dai ricchi industriali nordamericani che volevano soffocarla. Nonostante London - che spesso non esitava a crogiolarsi nel suo superomismo di bianco robusto, biondo e ottusamente fiducioso -, in tale racconto si narra tutt'altro. È l'urlo dei diseredati e il tentativo folle di placarlo ad alimentare la vita vera e autentica del protagonista: il piccolo servo della rivoluzione Felipe Rivera. La sua sete di giustizia ridicolizza i gringos, persi in stupidi riti collettivi, e non si dimentica di farci osservare con sarcasmo gli intellettuali rivoluzionari e il loro fardello di desideri inconcludenti.