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Di Isabella Cortese poco è dato sapere. Nulla del suo aspetto, della sua origine, della sua vita. Solo che per trent'anni studiò, «consumando il tempo e persa quasi la vita mia, e li denari» le opere dei grandi alchimisti. Tutto quel che rimane di lei è contenuto nelle pagine di questo testo, che dovette peraltro godere di una certa fama, visto che, dal 1561, anno in cui apparve, al 1677, fu ristampato quattordici volte. Scritto con un respiro che rivela, nello scorrere delle parole, risonanze e aromi preziosi quanto remoti, si insinua nei minimi frangenti di un quotidiano antico, seguendo esigenze di ogni segno e misura. Così a rimedi contro il mal francioso o l'impotentia coeundi, si contrappongono capillari ricette cosmetiche, «saponetto per rendere le man morbide e belle» o misture «d'ambra di muschio, e di zibetto» e «olio per confermar la gioventù». In ragion dell'evidenza che l'ha spinta a «investigare gli occulti secreti della natura» risponde, nel passare del tempo, a voglie e motivi spesso più costanti e attuali di quanto parrebbe.