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Negli ultimi anni sta prendendo progressivamente piede, tra gli organi di informazione, una nuova forma di narrazione degli eventi criminali (violenza sessuale, stalking, maltrattamento, femminicidio, ecc.): gli eventi sono raccontati dai mass media con modi e finalità spettacolari con l'intento di suscitare nello spettatorelettore forti emozioni, soprattutto paura. Il linguaggio utilizzato e la presentazione ripetuta di questi contenuti creano un clima di allarmismo portando lo spettatorelettore a una percezione di rischio di pericolo maggiore rispetto a quello reale. All'interno del processo di comunicazione si colloca la modalità con cui lo spettatore-lettore percepisce il crimine: in tal senso, la sensazione del pericolo è un processo cognitivo che orienta i comportamenti delle persone di fronte a decisioni che coinvolgono rischi potenziali. Questa percezione coinvolge diverse dimensioni sul piano delle conseguenze immediate e future, oltre ad avere forti implicazioni sul piano del reale e razionale quanto su quello emozionale e soggettivo. Parlare di violenza attraverso i mass media presuppone anche il rischio della connessione causale fra la violenza sociale rappresentata e la violenza che realmente esiste nella nostra società: la violenza si insinua nella quotidianità creando, a volte, mostri e sospetti. Intercettando il dolore della vittima e la malvagità del criminale, i mass media con il loro linguaggio reinterpretano la violenza caricandola di un livello emotivo volto a creare allarmismo nel contesto sociale. Il libro nasce come testo universitario ma si rivolge anche a molteplici professionisti - psicologi, psicoterapeuti, criminologi, esperti della comunicazione - con lo scopo di introdurli allo studio dei complessi rapporti tra crimine e impatto psicologico della comunicazione, nonché offrire spunti per acquisire strumenti critici sui meccanismi correlati all'atto di violenza e sul loro significato sociale.