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La seconda metà del Duecento segnò in Italia e in Europa l'avvio di un processo di profonda revisione dell'identità nobiliare. Ad affermarsi, non senza resistenze, fu un'idea di nobiltà fondata anzitutto su di un riconoscimento politico, quella che Bartolo di Sassoferrato in un suo celebre trattato avrebbe definito «nobilitas illata per principatum tenentem». In molte città italiane a questo cruciale passaggio avrebbe corrisposto nel lungo periodo una definizione del privilegio di stampo patrizio, derivata dalla partecipazione al governo del comune. Non però a Milano, città che pure nel 1377 ebbe una sua "matricola dei nobili", tradizionalmente salutata dalla storiografia come pietra di fondazione del patriziato locale. Piuttosto che delimitare i confini di un ceto di governo relativamente omogeneo, la matricola milanese tracciava infatti il profilo di una nobiltà larghissima e tutta naturale, definita dall'appartenenza a determinate parentele, senza alcun riguardo per ruoli politici, ricchezze, e perfino per la stessa inclusione nei ranghi della cittadinanza. Una "strana" nobiltà, dunque, che questo libro intende illustrare, mostrando per prima cosa come essa potesse costituire un linguaggio di comunicazione intercetuale, un ponte tra uomini situati agli antipodi o quasi del mondo sociale. Ma perché si affermò a Milano una simile idea di nobiltà? E per quale motivo poté durare sino alle soglie dell'età moderna?