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L'autore, un impiegato livornese dell.Ottocento, scrisse questo poema in 4550 versi distribuiti in 21 canti nella seconda metà del XIX secolo, e se lo fece stampare dalla tipografia di Israel Costa in soli 20 esemplari nel gennaio del 1886. La stampa ridottissima ne fece ben presto un opus deperditum nella cui ricerca si impegnarono in diversi livornesi, ebrei e non, finché un caso fortuito consentì a Pardo Fornaciari di entrar in possesso di una copia, forse l'ultima rimasta. L'opera è una miniera di fatti grandi e piccini, quella che altrove si sarebbe chiamata la memoria del ghetto: uno strumento di formidabile documentazione sulla vita quotidiana e, soprattutto, sulla mentalità degli ebrei di Livorno, cioè di una comunità di recente formazione (Livorno è città dal 1606) ma ricca di riferimenti narrativi testimoni di grande vitalità. Se la lingua base dell'opera è l'italiano letterario, frequenti sono le incursioni nell'ebraico, nel giudeospagnolo e nel bagitto. Se quest'ultimo, il vernacolo del popolino ebraico livornese, non è utilizzato, grazie alla costellazione delle forme mentali, al gioco delle preterizioni e delle antifrasi, appare chiaro che Ascoli non scrive, ma pensa in bagitto.