Tab Article
Quando al largo delle coste di Lampedusa affonda un barcone, ci si concede qualche giorno di riflessione mediatica sui morti, si titola "ecatombe" e si denuncia la "vergogna". I migranti che invece sopravvivono e riescono a sbarcare in Italia per cercare una nuova vita in Europa si volatilizzano in fretta dalla nostra attenzione, come se le loro esistenze potessero essere raccontate solo sull'onda di un fatto eclatante, e mai nella quotidianità. "Uallai!", espressione araba che significa "Dio mi è testimone che è tutto vero", tratta invece di un argomento assai poco frequentato dalla pubblicistica: i migranti vivi. E racconta, adottando un punto di vista molto ravvicinato, quasi intimo, di storie sospese tra la commedia grottesca (una semplice TAC che si trasforma in una sgangherata odissea) e il dramma paradossale (un profugo analfabeta, aspirante medico viene sfruttato per una campagna elettorale da un rettore "progressista"), mentre la tragedia rimane sullo sfondo, e al sensazionalismo si sostituisce l'umorismo. In "Uallai!" dei profughi nordafricani e dell'Italia che li "accoglie" finalmente si ride: si ride di loro e di noi. Sulle sorti dei migranti si è soliti piangere, o tacere o gridare emergenza!, ma la pietà per il "diverso" non fa che consolidare le mura del ghetto. Invece la risata - sarcastica, solidale, liberatoria, a seconda dei casi - che accompagna che accompagna la loro e la nostra commedia umana diventa un'opportunità di accomunamento e di conoscenza.