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Esiste, in ogni parola, il mistero della sua origine, del suo farsi e sfarsi nel tempo. Così, queste poesie sembrano cavalcare la cresta dell'onda che conduce l'essere verso il suo compimento, non trascurando le pietre miliari delle improvvise parusie, gli epodi, subito dopo l'attacco frontale del senso dell'immagine prima. Il libro, dunque, affonda le sue origini nell'archetipo acronico della grotta, di una lingua per immagini che è ancora "altro" dalla lingua scritta, eppure già codex, impianto simbolico per niente casuale. Senso che si dirama nel tempo costruendo, mattone dopo mattone, l'edificio di una storia parallela, quella degli accadimenti, del compiersi ineluttabile delle cause e degli effetti e quella sotterranea del senso polimorfico, cangiante e ambiguo come le apparizioni. I versi spesso "appaiono" e "scompaiono", si alimentano incessantemente di un andare avanti e di un tornare precipitosamente indietro verso quella grotta, evocano nascite e rinascite. Hanno l'ossatura di un corpo elastico tirato verso l'origine e la fine, vivono nella tensione che si crea al centro, e cioè nel punto più esposto alla vita, al compimento dei suoi fasti: "ciò che esiste ha un nome". La tenzone abita interamente nella caduta di un corpo, nella "retorica" vitalistica della sua entelechia e della sua entropia; a cui si contrappone un disabitare costante, l'inconsistenza dell'acqua, la sparizione, il rischio di una visione dispotica del mondo. Così, soprattutto nelle prime sezioni, Vincenzo Di Maro suggerisce la poesia come lingua della preveggenza; non nel senso di indovinare, di prevedere il disastro, ma nel senso di una lingua capace di sentire contemporaneamente la presenza degli opposti, tra requiem e battesimo. Lingua, questa, destinata a essere pronunciata sulla superficie traballante delle falde psichiche, splendente quando esaltata e guizzante verso la luce, oscura e incatramata quando precipiti verso il mare oscuro del dubbio.