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Padre e figlio, regista e pittore. Il libro di Elisabetta Lodoli racconta l'incessante allegria di un rapporto di amore e libertà. Per parlare del padre, il regista Jean Renoir diceva "Renoir". "Renoir, mon père". Jean diceva "Renoir", come se quello "vero" non fosse lui, ma il padre soltanto, il celebre pittore impressionista Pierre-Auguste Renoir. Là dove i due Renoir sono un caso raro di relazione felice, di identità che, senza sovrapporsi od oscurarsi, ben definite invece fioriscono, diverse. Contigue ma diverse. Un racconto che ci accompagna lungo la strada maestra di Jean verso l'emancipazione, verso un affrancamento autentico dal padre che arriva solo con il lavoro di montaggio. Lì la sua estetica, la sua liberazione, il suo cinema. In una capacità straordinaria di riorganizzare le immagini, di nuovo ispirata alla concretezza del lavoro di impronta paterna. "Ho passato la vita a cercare di determinare l'influenza di mio padre su di me", confessa Jean Renoir in una delle sue ultime interviste. Mentre lo dice ha gli occhi che ridono, lontani da qualsiasi tormento apparente. Lo appassiona capire dove l'arte si nutra di echi, suggestioni. Eppure il problema per lui sembra alle spalle, o addirittura mai posto. "L'incessante allegria" di Renoir quello "vero" è, finalmente, anche la sua. Il secondo titolo della collana 7th Art ci restituisce la vita del grande regista francese Jean Renoir che come il padre ha creato scene in apparenza spontanee, la cui naturalezza maschera in realtà il lavoro di preparazione e un controllo minuzioso delle fasi del processo creativo. Uno sguardo, quello di Jean, che tanto ha assorbito (quadri, libri, film altrui), ora guarda, libero, a oggetti e soggetti scelti con la stessa libertà. Nel suo cinema è se stesso: ed è proprio in quel momento che Jean diventa, lui anche, e per sempre, "Renoir".