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"Libro di recisione, di abbandono e però di roccia, di boschi. Una poetessa rupestre, una voce che non strappa via da sé mai la parte aspra della natura, nemmeno per farne letteratura. Intendo che in questa voce esordiente e caparba avviene uno scarto rispetto a ogni consolazione letteraria. Semmai la poesia gira di più il coltello nella ferita, quasi come sfida di resistenza e antidoto all'oblio. In una forma estrema di amore si cerca di scoprire nell'amore la verità, anche quando ha occhi dolenti in cui però si fa largo un'aurora. Capace di vivide visioni o di curiosi avvistamenti nella materia che le si offre (la fine di un rapporto, il ricordo, la casa, la percezione del proprio corpo e tempo) la poesia di Gaia Boni non cerca l'effetto: mette giù i suoi versi come un chirurgo i suoi strumenti o un killer finito il lavoro. Perché in lei la poesia è innanzitutto un lavoro del cuore precedente alla scrittura, ed è un buon segno rispetto a troppa scrittura di facile reazione, quasi sempre letteraria, cioè formata su modelli, che vediamo in giro. Invece Gaia no, un po' non se ne cura, presa come è in una fatalità che la urge a riconquistare la sua età e il suo tempo. Libro di fredda urgenza, di trattenuta violenza. E di straziante boschiva luminosità". (Davide Rondoni)