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Nel periodo della sua formazione Klee esitò a lungo, come è noto, tra musica, pittura e poesia; e il fatto di avere infine scelto la pittura, dando così inizio a quella che è forse la più alta e feconda esperienza artistica del Novecento, non gli impedì mai di continuare a coltivare, in modo "disinteressato" e quasi segreto, la ricerca poetica. I sui versi non sono dunque il frutto di un'attività marginale; non si tratta di glosse esistenziali alla sua pittura, ma di oggetti espressivi autonomi e, per così dire, omologhi rispetto a quelli creati dalla sua fantasia figurativa. Come nella pittura, anche nella poesia Klee tende a impadronirsi dei meccanismi originari della genesi cosmica. Indipendentemente dal fatto che il processo sia affidato al linguaggio iconico o a quello verbale, Klee tende all'individuazione e alla messa in scena di codici archetipici. Ed è proprio a questa ricerca grandiosa e, per definizione, infinita che Klee doveva pensare quando scriveva di se stesso: "Nel mondo terreno non mi si può afferrare perché io abito altrettanto bene tra i morti come tra i non nati. Più vicino del consueto al cuore della creazione e ancora troppo poco vicino".