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Fino al 1646, la tipografia milanese di Gio. Pietro Ramellati non si era discostata di molto dalle consuetudini editoriali dell'epoca. Ai manualetti di consumo religioso e di più sicuro guadagno, Ramellati aveva accompagnato pubblicazioni di eruditi di alto profilo, distinguendosi per l'uso di rari caratteri ebraici ed arabi e per le rilevanti committenze dell'Accademia Ambrosiana e della burocrazia spagnola. Per gli avantesti di molte di queste pubblicazioni Ramellati aveva elaborato ampollose dedicatorie e divertiti versi d'encomio. Nel 1646, ricorrendo ai tipi della propria stessa bottega, Gio. Pietro decise di ripubblicare queste sue composizioni in un libro tutto suo, intitolandolo Rime. Si tratta di una raccolta di poesie e prose epistolari che diventano un corpus di componimenti incaricato di esibire le velleità letterarie e le conoscenze accademiche del typographus che vuol farsi auctor. Lo pseudonimo dietro il quale Ramellati cela se stesso fin dal frontespizio non è che un espediente per ostentare la propria autopromozione accademico-letteraria, e per accompagnare l'informato lettore in una serie di cortocircuiti d'identità che ne rivelano l'innovazione.