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Durante una cena in campagna, all'inizio di un'estate di molti secoli orsono, due vecchi amici si confrontano su temi che nel corso del tempo non hanno poi smesso di premere al cuore degli uomini: la vita, la morte, il successo, la poesia, il sesso, il cibo, il vino. È il 26 avanti Cristo e nei discorsi dell'etrusco Gaio Cilnio Mecenate e del poeta apuloromano Quinto Orazio Flacco si avvicendano con nitore personaggi della Storia che, per solito, siamo usi considerare solo da lontano: Bruto, il traditore dello Stato, il divo Augusto, Cleopatra d'Egitto dalla voce carezzevole. Mentre sulla mensa si susseguono i piatti complicati della tradizione gastronomica romana d'età classica e vengono mesciuti gli antichi vini della penisola, scorre sotto gli occhi del lettore la complessa vita dell'epoca con i suoi riti, i culti, le passioni furibonde, il pristino modo di vivere l'amicizia come l'amore. Questa la vasta cornice d'un tragico fatto coniugale e del suo triste epilogo. Epilogo che non sarà definitivo, tuttavia: grazie a un'epigrafe funeraria dell'epoca, passata attraverso i millenni, quella storia giungerà fino a noi per il nostro ammaestramento e la nostra pietà.