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Due interviste, solo in apparenza tra loro lontane nel tempo. La prima del 1986, in tv, con Didier Cahen di "France-Culture"; l'altra, due mesi prima della sua morte, apparsa su "Le Monde" il 19 agosto 2004 con Jean Birnbaum. In realtà vicine per i temi discussi e lo spirito con cui il lavoro filosofico di Jacques Derrida viene affrontato per il pubblico vasto e indifferenziato della tv e del maggior quotidiano francese. Nella prima il congedo, lungo e articolato, dalla tradizione filosofica metafisica si intreccia con le precisazioni, molto chiare, sul modo di intendere la "decostruzione". Nella seconda, quando Derrida è in vista dell'ultimo vero congedo, quello dalla vita, un certo velo di malinconia sorregge la descrizione della fragilità e insieme della finezza di tutto il lavoro concettuale fino ad allora svolto. Emerge una visione della filosofia orgogliosa del proprio lascito e nello stesso tempo consapevole della precarietà con cui ogni tradizione, anche quella che apparentemente ne vorrebbe volentieri fare a meno, deve fare i conti, a partire dalla lingua stessa con cui cerca di esprimersi. Due testimonianze dell'intensità di un pensiero spesso frainteso.