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«Quando si studiano i caratteri del pensiero dell'Estremo Oriente - scrive Henri Focillon -, non si dovrebbe lasciare troppo spazio ai rivieraschi dello Yangtze Kiang, alla filosofia del Tao, una sorta di hegelianismo asiatico, nel quale si è cercato di riconoscere delle infiltrazioni di metafisica indiana. In ogni caso, i procedimenti con i quali l'arte cinese e l'arte giapponese hanno cercato di fissare una immagine del mondo conforme al loro sentire, sono il risultato di uno sforzo estetico che deve molto sia al buddhismo sia alla dottrina di Laozi. E inutile copiare la natura, perché una copia limita, secca e spoglia della vita il suo oggetto: non si tratta neppure di un oggetto determinato, perché esistono solo rapporti instabili e momentanei. Ma questi rapporti dell'unità e del tutto, ci è permesso suggerirli. Suggestione, ecco il magico segreto di un'arte per la quale la vita si immerge da ogni parte nell'infinito, il solo mezzo per risvegliare nella coscienza la nozione di questi rapporti indeterminati e profondi senza i quali l'universo non sarebbe che un caos di cupe immobilità. Una scatola di lacca abbandonata su una stuoia è solamente, se la si considera come un volume rettangolare di legno annerito, un'illusione senza interesse e persino, in senso profondo, essa non esiste neppure. La sua vita è la mano che l'ha toccata e di cui risente ancora il calore, sono i ricordi che racchiude, è l'ora in cui la si guarda, un certo giorno di una certa stagione, con una certa disposizione d'animo».