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«Urge che il teatro ritorni a essere qualcosa di vivo, di forte, che turbi i cuori inerti: una doccia al servizio dell'igiene morale», scriveva José Ortega y Gasset nel 1930. Un teatro che non esitava a definire "ultramondo", "ultravita", dov'è possibile «convertire se stessi in irrealtà»; l'altro mondo per eccellenza. Ma oggi, almeno in Occidente, osservava l'autore, «non c'è quasi niente che non sia in rovina...»: il teatro in forma, quello di Eschilo, Sofocle, Aristofane, oppure quello di Shakespeare e Ben Johnson, Lope de Vega e Calderón, o ancora quello di Corneille e Racine, di Goethe e Schiller, o della Commedia dell'Arte napoletana, non esiste più. Se «la città moderna non produce, consuma», anche il teatro si è infine consumato. L'uomo-massa di Ortega è divenuto uomo mass-media, dove «il mondo virtuale-irreale e fantastico del teatro, alternativa al mondo della realtà vista come un contorno imposto, come rigida circostanza», è soppiantato da un ultramondo prefabbricato, globalizzato e mediatico. Alla tv-spazzatura, osserva Francesca Falchi nella Prefazione, corrisponde oggi il teatro-spazzatura, che assolda critici per sostenere un nulla che si crea e che non si può distruggere, non perché il flusso sia continuo, ma perché il nulla inteso come assenza radicale di idee è indistruttibile.