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Un saggio "sopra le righe" questo di Richard Millet, che affronta di petto la questione del ruolo della letteratura nel nostro sistema culturale. Da una posizione difficile, quella di uno scrittore che si definisce cristiano in un'Europa che pare aver abdicato alla sua tradizione religiosa e umanistica, Millet esamina la fase storica attuale, facendo riferimento alle posizioni nietzschiane sul progressivo dominio sociale del nichilismo e a quella dei grandi intellettuali del secolo scorso sul valore delle opere letterarie contro la barbarie. Ma oggi ben poco di quel valore sembra rimanere ancora: chi scrive poesie o romanzi di successo ha perduto di vista il ruolo essenziale della creatività linguistica, mentre i letterati contro corrente vengono emarginati o bollati come stravaganti se non pericolosi. Contro questa democratizzazione verso il basso, Millet esalta in maniera provocatoria la figura dello scrittore che, nonostante tutto, crede e vuole che si creda nell'immortalità della sua opera, sulla scia di Celine o di Hofmannsthal o di Kafka o di Leopardi. Si può ridere vicino al baratro, ma quel riso deve essere preso tremendamente sul serio.