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"Onorevole Giacomino, salute!". La frase, urlata nel megafono dal supertifoso Gino Villani, è la traccia dello specialissimo rapporto fra Bologna e il suo capitano. Quando Giacomo "sputato dalla terra natia", come direbbe il poeta Umberto Saba, usciva dalla scaletta degli spogliatoi, il primo tributo era per lui. Un grido di battaglia e di incoraggiamento ma anche un omaggio sentito al figlio più amato di questa città. Nato a Medicina in provincia di Bologna, studente di liceo classico al San Luigi, occhi cerulei e riga fra i capelli, come usava in quegli anni, Bulgarelli aveva la faccia pulita del bravo ragazzo ma anche il piglio del giovane playboy. Impossibile non amarlo, non sentirlo vicino: uno di noi, uno cresciuto a tagliatelle e scappellotti della mamma. Sul campo Giacomo era un grande centrocampista, un interno classico capace di spezzare il gioco avversario e inventare calcio con una facilità assoluta. Era l'uomo degli assist, dell'ultimo passaggio, un vero artista della rifinitura. Ma era anche un giocatore generoso, pieno di slancio e di sano agonismo. Non tirava mai indietro la gamba e non lo fece neppure nella notte di Italia-Corea del Nord, ai mondiali del '66, quando il suo infortunio condannò la nazionale di Edmondo Fabbria un'ingloriosa sconfitta firmata da Pak Doo Ik. Nel calcio italiano era il tempo degli "abatini", come li chiamava Gianni Brera, di Rivera e Mazzola. Bulgarelli era terzo ma per completezza tecnica e qualità atletiche meritava di essere il primo dei tre.