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Sul tavolo davanti alla casera, tra canti anarchici e bicchieri di vino, alcuni paesani scanagòti - il filantropico patriarca Saia, l'impaziente e burlone Zinto, il sagace pensatore Zènte, l'austero e inflessibile Donta, il socievole e sentenziante Tacacucagne e il semplice e confuso Magnabùtole - coltivano un sogno antico: raddrizzare le cose storte, cambiare il loro pezzo di mondo. Sono rivendicazioni semplici, nate sui monti; rivendicazioni che fatalmente si arenano nell'esercizio politico, che pare destinato a oscillare in eterno tra realtà e utopia, tra buona fede e mala fede. E quando l'intesa comunitaria si sfilaccia, i buoni paesani si ripiegano, e ai loro danni si consuma persino una vergognosa (e molto comica) beffa. Ma la loro vicenda non è stata invano, se chi la conoscerà potrà sentire, come un amore mancato, il richiamo dell'ideale; "perché non solo nel male, ma anche nel bene, non si potranno più chiudere gli occhi che hanno cominciato a vedere".