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L'America dei vagabondi pronti a saltare su un treno in corsa e dei vigilantes armati di manganello, l'America sterminata delle pianure, quella delle metropoli dove sempre accade qualcosa, delle tempeste di polvere e del sogno californiano, quella cruda di John Steinbeck, ereditata da Jack Kerouac. Alien Ginsberg, Bob Dylan e Bruce Springsteen. Nessuno l'ha cantata meglio di Woody Guthrie. Come nelle sue canzoni, anzi, come in una lunga canzone parlata, Guthrie racconta la sua avventura con toni accesi e a tratti visionari, regalando alla scrittura una voce chiara, viva, secondo il grande esempio della tradizione statunitense che ha in Walt Whitman il proprio capostipite.
Woody Guthrie è l’America di cui tanti hanno scritto, quella dei vagabondi che la girano tutta in cerca di un lavoro, di un tozzo di pane, di un po’ di buona compagnia e di qualcosa da ricordare e raccontare ai propri figli, se mai riusciranno ad averne: lui l’ha fotografata prima degli altri. È il precursore di tutti i cantautori folk americani e anche della beat generation, dei viaggi senza fine attraverso gli States, della libertà di avere tutto un paese a propria disposizione e, allo stesso tempo, del doversi inventare qualsiasi cosa per mangiare, almeno una volta al giorno. La gioia di vivere e un orgoglio delle proprie origini sono così radicati in lui e impressi con una tale forza nel suo romanzo che, a leggerlo, viene voglia di mollare tutto e partire per un viaggio senza meta, accompagnati solo dalla propria chitarra e tanta curiosità. Prima di arrivare a tutto questo, però, molto spazio è dedicato all'infanzia di Woody. Come nei ricordi delle persone, in cui proprio l'infanzia appare come un tempo sterminato, vago, spesso felice e sicuramente più lungo di quello che è stato in realtà, Woody bambino occupa più della metà del romanzo e giustifica l’attaccamento che chiunque abbia vissuto un’esperienza come la sua conserva per i propri natali. Woody è un bambino curioso e costretto ad affrontare una situazione familiare difficile: il padre non riesce a trovare un lavoro stabile e necessario a sfamarli; deve poi superare la morte della sorella in un incendio e fronteggiare la crudeltà, infantile, degli altri bambini del paese, che lo prendono in giro per la malattia della madre. Non bastano i continui spostamenti per trovare un po’ di serenità. Furore, di John Steinbeck, prende a piene mani dai racconti di Guthrie, soprattutto quando descrive gli accampamenti della gente che cerca lavoro vicino ai pozzi di petrolio o in qualunque posto: troppa gente per quello che c'è da fare e nessuno vuole andar via. Lo spirito di Guthrie, però, è più positivo e scanzonato, convinto che una soluzione positiva possa esserci comunque. Sopportare una successione di disgrazie come quelle che l’hanno colpito e non darsi per vinti; barcamenarsi per lavorare e sopravvivere; andare in giro con la propria chitarra, che lui chiamava il suo “buono pasto”, e nient’altro; cantare canzoni di protesta e di speranza sul tetto di un treno con la pioggia che sferza il volto e impregna la chitarra non è il sogno di chiunque. Leggerlo e immaginarselo, però, ha tutto un altro effetto.